I primi campanelli d’allarme erano suonati già nella seconda metà del 2020. Diversi team di scienziati nel mondo, Italia compresa, hanno cominciato a documentare come la pandemia di Covid-19 – complice l’isolamento sociale che ha caratterizzato la lotta a Sars-CoV-2 – stesse facendo da detonatore al disagio mentale degli adolescenti. Una costante emergeva dalle loro ricerche: il ruolo da co-protagonista del mondo digitale in cui – complice anche l’effetto lockdown – alcuni di loro restavano prigionieri. Sono trascorsi ormai quasi 4 anni e gli studi sulla complessità delle dinamiche che spingono sempre più giovani in spirali buie senza uscita, si sono moltiplicati. Ultimo della lunga lista uno studio italiano del Cnr-Irpps (Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma) che, cercando di inquadrare i meccanismi che portano allo sviluppo di pensieri di suicidio in adolescenza, ha fatto emergere un dato: quasi la metà (il 44,9%) degli adolescenti italiani ha sperimentato questi pensieri almeno una volta nella vita, soprattutto ragazze.
Ragazze come Molly Russell, 14enne britannica che si è tolta la vita a 14 anni nel 2017. Sui suoi canali social vennero poi ritrovati centinaia e centinaia di contenuti inerenti al suicidio e furono storiche le conclusioni dell’inchiesta sul suo caso che puntavano il dito per la prima volta anche sugli effetti negativi di questi contenuti online. Il suo caso è tornato al centro dell’attenzione dei media una settimana fa, perché un report della “Molly Rose Foundation”, che deve il nome proprio alla ragazza, ha svelato come poco sia stato fatto per contrastare il problema in questi anni. E come poco sia cambiato sui social media, nonostante i siti oggetto della ricerca, TikTok, Instagram, Pinterest, abbiano tutti promesso di creare strumenti per limitare l’accesso a materiale dannoso.
A questa “bolla” che imprigiona i ragazzi…
Fonte www.adnkronos.com 2023-12-07 17:28:07