Si può adottare il termine emergenza per una situazione incancrenitasi nel tempo e che perdura da ormai 13 anni? Nel caso della tendopoli di San Ferdinando la risposta è purtroppo scontata.
Dalla rivolta dei migranti di Rosarno sono trascorsi ormai 13 anni: era il gennaio del 2010 quando scoppiò la guerriglia in strada. Da allora ne è passato di acqua sotto i ponti e fiumi di parole e d’inchiostro sono stati sprecati. Nella piana di Gioia Tauro la polpetta avvelenata dei migranti costretti a vivere in condizioni disumane non la vuole assaporare, evidentemente, nessuno (o quasi). Le istituzioni nel tempo hanno faticato e faticano tutt’ora a fornire risposte risolutive. A Gioia Tauro c’è una linea direttrice, un confine ben chiaro e delimitato: da un lato la ricchezza di un’infrastruttura come il porto che ogni giorno che passa produce numeri importanti, dall’altro lato della strada l’asfalto greve e le sterpaglie e le erbacce che segnano la trascuratezza e il (non) decoro di una zona industriale dalle mille potenzialità. Ed è facile riempirsi la bocca parlando di Zes e di riqualificazione di una vasta area che porta all’ingresso della tendopoli.
Una tendopoli in cui vivono ancora oggi 500 migranti circa, una tendopoli in cui lo Stato (al di là della lodevole, costante e imprescindibile presenza delle forze dell’ordine) ha mollato la presa. Chiunque può entrare ed uscire dal “villaggio”, non c’è neanche il barlume di un foglio, di un “brogliaccio”, di un qualcosa che possa attestare chi sia presente in quel microcosmo di varie sfaccettature in cui sono costretti a vivere decine di africani vittime di un caporalato senza freni e di uno sfruttamento che perdura nonostante l’intensificarsi dei controlli.
Vivono senza acqua e senza luce, vivono ammassati nelle tende. Vivono una vita al limite: dall’alba al tramonto: seduti in sella ad una bici per andare a guadagnare si e no 20 euro percorrono in un largo, come tanti altri migranti che vivono al di fuori della tendopoli, la piana di Gioia Tauro. I loro volti sono provati, nei loro occhi si intravede il timore di essere ripresi dai nostri obiettivi: lì dentro, in quel microcosmo, c’è chi è addetto al riscaldamento dell’acqua, chi vende il pane, chi “produce” arrosticini di carne dopo aver scuoiato un animale, c’è chi ripara biciclette, c’è chi ha creato un bazar dove vende vestiti, c’è il parrucchiere e anche un baretto. Tra le “vie” della tendopoli si respira un’aria pesante, addolcita però dalla presenza di chi ha scelto in maniera convinta e decisa di non poter rimanere fermo ad aspettare impotente. Claudia Gentile e Fabio Costa della Caritas di San Ferdinando portano cibo, viveri, vestiti e altro ancora. Sono presenti lì da anni, così come è forte la presenza di Rocco Borgese della Flai Cgil Area Metropolitana. Insieme a loro, a padre Leonard Emeka, al sindaco di San Ferdinando Luca Gaetano, al garante della Salute della Regione Calabria, Anna Maria Stanganelli, abbiamo percorso questo piccolo viaggio nella tendopoli.
Perché, dopo 13 anni, e dopo tante promesse, non si può non porre, ancora una volta, porre l’attenzione su questo tema. Si è parlato spesso della necessità di fornire una condizione di vita dignitosa a queste persone, di dismettere la tendopoli e assicurare loro un luogo più sicuro e decoroso. Ma al momento la situazione sembra senza essere senza via d’uscita.
Ecco il nostro viaggio nella tendopoli di San Ferdinando: la seconda puntata della nostra rubrica “Labirinto Calabria”.
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Fonte reggio.gazzettadelsud.it 2023-03-02 02:30:58