Giovani poco attratti dal mercato del lavoro. Con le “possibili” occupazioni che non sono più un mezzo per diventare autonomi o realizzare le proprie ambizioni. Dove le carenze nella formazione, il divario tra i generi e tra Nord e Sud li spingono sempre più a trasferirsi all’estero. O, peggio, li trasformano nei “nuovi” Neet (“Not in Education, Employment or Training”): ragazzi che vivono a casa con i genitori, senza desiderio di studiare ne’ di cercare un impiego.
È la fotografia, non rassicurante, scattata dalla ricerca su giovani e lavoro in Italia dal nuovo Osservatorio permanente Elle active!, creato da Hearst con il Centro di ricerca Crilda dell’Università Cattolica di Milano.
Presentato alla nona edizione di Elle active! in programma all’ateneo milanese il 9 e 10 novembre, il Rapporto racconta quanto nel nostro Paese il percorso verso un’occupazione sia ancora tutto in salita. E se il lavoro è precario, mal pagato, poco gratificante, i giovani italiani non ci stanno: non a caso, nell’ultimo decennio il tasso di emigrazione dei neolaureati è più che raddoppiato. Per contro c’è chi, di fronte alle oggettive difficoltà, si abbatte e finisce in un limbo di inattività per cui l’Italia è penultima in Europa (peggio di noi solo la Romania) con il 18% delle ragazze e il 14% dei ragazzi che rientrano tra i Neet.
Anche avere un lavoro, peraltro, non garantisce di uscire dalla condizione di working poor, ovvero di chi, pur lavorando, non riesce a superare la soglia di povertà. Non stupisce quindi se i giovani italiani siano i più lenti in Europa a lasciare la famiglia: succede in media a 30 anni, contro la media di 26,4 anni. “Il rischio povertà riguarda molti lavoratori, per esempio gli stagionali o gli addetti alla ristorazione, non perché la paga oraria sia bassa, ma perché non lavorano continuativamente dodici mesi l’anno”, spiega il direttore del Crilda, Claudio Lucifora. Ma questo è anche un “mondo del lavoro creato dagli uomini a loro misura”, aggiunge, A essere maggiormente preoccupate e insoddisfatte sono infatti soprattutto le giovani donne, per le quali l’accesso al lavoro è più difficoltoso e incerto rispetto ai coetanei. Pur avendo livelli di istruzione maggiori (le laureate sono il 10% in più dei laureati), continuano a essere meno occupate (solo 45% rispetto al 58% degli uomini.
Anche in termini di territorio, le differenze sono evidenti. A un anno dalla laurea, il 60% dei ragazzi al Nord risulta occupato, senza differenze di genere, mentre al Sud i tassi di occupazione dei neolaureati sono la metà (34% gli uomini, 27% le donne). Non tutte le lauree, poi, sono uguali: le Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics) garantiscono una più veloce transizione scuola-lavoro, al Sud però questo vale solo per gli uomini.
Ed è qui che troviamo l’altro gap: le differenze di retribuzione tra i generi all’inizio della carriera sono contenute, anzi l’Italia sembra tra i Paesi più virtuosi d’Europa, sia tra chi ha meno di 25 anni, sia nella fascia di età 25-34 anni. In realtà il dato è falsato dalla bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia, dove è impiegata una donna su 2, a differenza di altri Paesi europei dove a lavorare sono 2 donne su 3. Non solo. In Italia, a quindici anni dalla nascita del primo figlio, la retribuzione delle madri è circa la metà delle donne senza figli, a causa dell’inferiore numero di ore lavorate. In sintesi, la condizione più favorevole è quella di un uomo che vive al Nord tra i 30 e i 34 anni, laureato. La peggiore, quella di una donna tra i 18 e i 25 anni che vive al Sud, senza la laurea.
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