(di Daniela Giammusso)
Giovani poco attratti dal mercato del
lavoro. Con le “possibili” occupazioni che non sono più un mezzo
per diventare autonomi o realizzare le proprie ambizioni. Dove
le carenze nella formazione, il divario tra i generi e tra Nord
e Sud li spingono sempre più a trasferirsi all’estero. O,
peggio, li trasformano nei “nuovi” Neet (“Not in Education,
Employment or Training”): ragazzi che vivono a casa con i
genitori, senza desiderio di studiare ne’ di cercare un impiego.
È la fotografia, non rassicurante, scattata dalla ricerca su
giovani e lavoro in Italia dal nuovo Osservatorio permanente
Elle active!, creato da Hearst con il Centro di ricerca Crilda
dell’Università Cattolica di Milano.
Presentato alla nona edizione di Elle active! in programma
all’ateneo milanese il 9 e 10 novembre, il Rapporto racconta
quanto nel nostro Paese il percorso verso un’occupazione sia
ancora tutto in salita. E se il lavoro è precario, mal pagato,
poco gratificante, i giovani italiani non ci stanno: non a caso,
nell’ultimo decennio il tasso di emigrazione dei neolaureati è
più che raddoppiato. Per contro c’è chi, di fronte alle
oggettive difficoltà, si abbatte e finisce in un limbo di
inattività per cui l’Italia è penultima in Europa (peggio di noi
solo la Romania) con il 18% delle ragazze e il 14% dei ragazzi
che rientrano tra i Neet.
Anche avere un lavoro, peraltro, non garantisce di uscire dalla
condizione di working poor, ovvero di chi, pur lavorando, non
riesce a superare la soglia di povertà. Non stupisce quindi se i
giovani italiani siano i più lenti in Europa a lasciare la
famiglia: succede in media a 30 anni, contro la media di 26,4
anni. “Il rischio povertà riguarda molti lavoratori, per esempio
gli stagionali o gli addetti alla ristorazione, non perché la
paga oraria sia bassa, ma perché non lavorano continuativamente
dodici mesi l’anno”, spiega il direttore del Crilda, Claudio
Lucifora. Ma questo è anche un “mondo del lavoro creato dagli
uomini a loro misura”, aggiunge,
A essere maggiormente preoccupate e insoddisfatte sono infatti
soprattutto le giovani donne, per le quali l’accesso al lavoro è
più difficoltoso e incerto rispetto ai coetanei. Pur avendo
livelli di istruzione maggiori (le laureate sono il 10% in più
dei laureati), continuano a essere meno occupate (solo 45%
rispetto al 58% degli uomini.
Anche in termini di territorio, le differenze sono evidenti. A
un anno dalla laurea, il 60% dei ragazzi al Nord risulta
occupato, senza differenze di genere, mentre al Sud i tassi di
occupazione dei neolaureati sono la metà (34% gli uomini, 27% le
donne). Non tutte le lauree, poi, sono uguali: le Stem (Science,
Technology, Engineering, Mathematics) garantiscono una più
veloce transizione scuola-lavoro, al Sud però questo vale solo
per gli uomini.
Ed è qui che troviamo l’altro gap: le differenze di retribuzione
tra i generi all’inizio della carriera sono contenute, anzi
l’Italia sembra tra i Paesi più virtuosi d’Europa, sia tra chi
ha meno di 25 anni, sia nella fascia di età 25-34 anni. In
realtà il dato è falsato dalla bassa partecipazione femminile al
mercato del lavoro in Italia, dove è impiegata una donna su 2, a
differenza di altri Paesi europei dove a lavorare sono 2 donne
su 3. Non solo. In Italia, a quindici anni dalla nascita del
primo figlio, la retribuzione delle madri è circa la metà delle
donne senza figli, a causa dell’inferiore numero di ore
lavorate. In sintesi, la condizione più favorevole è quella di
un uomo che vive al Nord tra i 30 e i 34 anni, laureato. La
peggiore, quella di una donna tra i 18 e i 25 anni che vive al
Sud, senza la laurea.
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