Per una vita la sua missione è stata gonfiare la rete. Giocare sul filo del fuorigioco e beffare qualsiasi difesa è stato un esercizio naturale per uno cresciuto a pane e gol. Un chiodo fisso quell’innato fiuto nato nelle infinite partite in casa con il fratello Simone e sviluppato con i ragazzi del San Nicolò, la sua prima squadra, quando con il 9 sulle spalle primeggiava nel tabellino dei marcatori. Lui e il gol hanno sempre avuto un feeling speciale. Anzi, per dirla alla Mondonico, «il gol cercava lui, non viceversa». Quella “fame” di segnare e arrivare sempre più in alto è stata il suo marchio di fabbrica per ritagliarsi una splendida carriera da calciatore, «una storia stupenda fatta di sacrificio, perseveranza, ambizione. Mi ritengo fortunato – dice Inzaghi – di non essere mai incappato in gravi infortuni. Ho vinto tanto militando in grandi club, sono diventato campione del Mondo: non potevo sognare una vita da calciatore migliore».
Il “grazie” più importante a chi va?
«Alla mia famiglia. Non sarei qui se i miei genitori non mi avessero trasmesso quei valori che fanno la differenza e che ancora oggi mi rendono l’uomo e il professionista che sono. Hanno appoggiato me e mio fratello in tutto e per tutto. Vedevano quanto amassimo il gioco del calcio e hanno fatto immensi sacrifici per tenere vivi i nostri sogni. Ricordo le infinite partite sui campi in terra, i borsoni sporchi di fango, le speranze e le ambizioni di due bambini che dovevano conciliare studio e calcio, altrimenti sarebbero stati dolori: loro sono sempre stati lì a indicarci la rotta giusta da seguire».
Le prime volte allo stadio?
«Papà ci portava al “Garilli” a vedere il Piacenza. Il nostro posto era in tribuna, ma più di una volta sono “scappato” per andare a seguire la partita in curva. A San Siro, invece, ci andai per la prima volta a dieci anni. Papà tifava Milan, non sapevo ancora che proprio con quei colori avrei vissuto incredibili emozioni da calciatore».
Una vita a segnare e ad alzare trofei. In mezzo anche atroci delusioni…
«Fanno parte del gioco. Le sconfitte vanno accettate, bisogna spesso ripartire da queste per costruire il successo. Mi fanno sorridere le parole di Paolo Maldini che si definisce “il giocatore più perdente della storia”: uno come lui che ha vinto tutto, che è stato uno dei più grandi difensori della storia, non può definirsi perdente. Ero in tribuna nella tragica serata di Istanbul e quella dolorosa sconfitta ci diede la forza per ripartire e conquistare, contro lo stesso avversario (il Liverpool, ndr), la Champions due anni dopo».
Già, la serata dello stiramento e della doppietta…
«Per stampa e opinione pubblica non dovevo giocare, Gilardino andava a mille e io non stavo fisicamente bene. Ma Carlo Ancelotti stravedeva per me, così decise di farmi giocare. Sul pallone calciato di Pirlo e sbattuto sul mio corpo per il gol del vantaggio in pochi sanno che era uno schema collaudato: a San Siro segnai un altro gol così, altro che fortuna! In occasione del raddoppio, scattai nonostante l’infortunio muscolare, saltai Reina e poi non capii più nulla per la gioia. Era fatta».
Ancelotti, più di un allenatore per lei. Un secondo padre…
«L’uomo che ha sempre creduto in me. Dalla Juve al Milan, ho sempre goduto della sua incondizionata fiducia. Tuttora è un riferimento importante per me, un grande sia sul campo che nel rapporto con i giocatori, un maestro nella gestione dello spogliatoio. Lo considero il migliore tra gli allenatori, certamente il più completo. E un po’ in lui rivedo mio fratello Simone: i buoni risultati conquistati alla Lazio li sta confermando all’Inter. Con Spalletti rappresenta il meglio della A».
Ci sono due figure chiave nella sua crescita: Mutti e Mondonico.
«Due tecnici fondamentali. Il primo mi ha valorizzato a Leffe e poi mi ha voluto fortissimamente con sé a Verona: ero in cima alla lista dei suoi desideri. Ricordo il mio primo vero campionato coi grandi, a Leffe (stagione 92/93, in C1). Facevo panchina e faticavo a trovare spazio. Anzi, per tre mesi non vedevo campo: per Mutti gli attaccanti erano Maffioletti e Bonazzi».
Quindi?
«Il 20 dicembre ’92 entro nella ripresa di un Leffe-Siena sullo 0-0: passa 1’ e segno il gol-vittoria. Penso sia cambiato il vento. La settimana dopo si gioca a La Spezia e da Piacenza vengono a vedermi tantissimi miei parenti, convinti come me che partissi titolare. E invece rimango tutta la partita in panchina! A gennaio mi arrivano offerte da Pergocrema e Oltrepò, rifiuto perché voglio giocarmi le mie chance a Leffe. Succede che Maffioletti si rompe il menisco e cambia la mia stagione. Da riserva a titolare, segno due gol a Carpi, da quel giorno non esco più dal campo e faccio 13 gol che mi valgono il pass per la B con l’Hellas dove mi ripeto. Mondonico, invece, ha completato il mio percorso di crescita a Bergamo: i 24 gol e il titolo di capocannoniere non sono casuali, quella è stata davvero una stagione eccezionale che poi mi ha aperto le porte di un grande club qual è la Juve. E non dimentico neanche Gigi Cagni che mi ha permesso di esordire nel Piacenza a diciotto anni».
La panchina del Milan: fu un azzardo o un’occasione da cogliere al volo?
«Una scelta che rifarei altre mille volte. Non è mai facile iniziare dall’alto, ma altri casi, e mi riferisco a Zidane, Guardiola, Xavi e anche Pirlo, dimostrano che non è necessario fare esperienza per dimostrare il proprio valore dopo essere stati soprattutto grandi calciatori. È vero, in rossonero non arrivarono i risultati sperati, ma quello non era un Milan da scudetto. Tuttavia, quell’anno mi fece capire che potevo davvero fare l’allenatore. Con il gruppo si era instaurato un bel rapporto e nessun giocatore mi ha mai mancato di rispetto».
A Venezia e Benevento stagioni importanti tra C e A con il campionato cadetto dei record vinto nel Sannio.
«Avevamo già a marzo la promozione in tasca, ma quella squadra non era mai sazia e arrivammo a 86 punti festeggiando la Serie A matematica con 7 giornate d’anticipo. Firmammo qualcosa d’incredibile e l’anno seguente, nonostante un grandissimo girone d’andata, pagammo l’inesperienza negli ultimi mesi che ci condannarono alla retrocessione».
Questa B sembra più competitiva.
«Sono d’accordo. Ci sono piazze prestigiose e organici fortissimi per puntare alla A. Noi dobbiamo proseguire il nostro percorso, consapevoli che a gennaio inizierà un altro campionato. L’obiettivo è restare in alto più a lungo possibile, ad aprile ne parliamo. Questo è solo il primo anno di un progetto triennale, siamo oltre ogni previsione, l’augurio è che questa squadra mantenga il ritmo di questo strepitoso girone d’andata».
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Fonte reggio.gazzettadelsud.it 2022-12-31 12:00:31