C’è la Montagna, che non è aspra ma lucente; c’è un vecchio che ne custodisce la lingua perduta, con tutte le durezze e le stranezze dei vecchi custodi; c’è un giovane senza padre (ma è una terra che sembra avere perso i padri) che ama il vecchio e il suo mondo – si chiama come lui, con un nome antico da nume tutelare, e nei nomi ci sono interi destini – ma non se ne sente compreso, si sente diviso tra amori e spinte opposte; c’è una formidabile giovane donna, emigrante di ritorno (che bisognerebbe trovarglielo un nome, a «quelli che sono tornati» e oggi sono sempre di più, il contrario degli espatriati, spaesati, restati: rappaesati, ritornanti, neorestanti?); c’è una famiglia segnata da assenze e transumanze; c’è un fratello lontano, all’altro capo del mondo, anche lui preso nel gioco di partenze, sparizioni, ritorni, perché il Sud è un luogo mobile e il vento – libeccio, scirocco – non smette di dirlo, di spingere le vite.
Ci sono le regole e c’è chi va contro le regole, quando sono spietate e indifferenti all’umanità: da Antigone a Lucano, noi magnogreci lo sappiamo bene. C’è una lingua bella come un poema ininterrotto, il greco antico che s’è appaesato e ha preso la forma della montagna, alla quale ha dato il nome più luccicante (e nel fraintendimento di quel nome è scritta una parte della nostra storia attuale). C’è una riflessione sul tempo (quello fermo, quello immobile, quello in falso movimento), sui desideri (quelli truccati da bisogni, che ci trasformano da cittadini in consumatori), sulla responsabilità (a un certo punto Caterina, presenza magica a cui sono affidate alcune tra le più luminose certezze, chiede: «Perché la tua terra va in malora e tu non ne vuoi sapere?»). Ci sono tutti i temi cruciali e dolorosi dello stare in Calabria e al Sud, oggi – ma funziona per tutte le parti del mondo in cui ci aggiriamo senza riconoscerci – nel nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, africoto e…
Fonte reggio.gazzettadelsud.it 2022-06-16 08:00:59